Il papà di Giulia, uccisa da Turetta, a Poggioreale:«Lei era un'isola felice» «Sono sopravvissuto alla tragedia non fuggendo ma affrontandola»
LA VISITA
C'era una grande attesa tra i diciotto detenuti del padiglione Genova del carcere di Poggioreale e fin dalla mattina i loro occhi brillavano di commozione al solo
pensiero di cosa avrebbe significato l'incontro con Gino Cecchettin. Il padre di Giulia è stato invitato dalla Comunità di Sant'Egidio a parlare della sua drammatica esperienza in uno degli incontri tematici che mensilmente si tengono nell'istituto intitolato a Giuseppe Salvia. L'evento era stato preceduto dalla visione di un film sul patriarcato che aveva provocato una accesa discussione, e dalla lettura del libro "Cara Giulia" scritto dal padre della ragazza.
Quando qualcuno ha affermato che se fosse capitato a lui avrebbe ucciso con le sue mani l'autore del delitto, la reazione di chi si è macchiato di un grave reato è stata quella di un forte senso di colpa e di qui l'intenzione di non partecipare all'incontro.
IL CONFRONTO
Non era la prima volta che Gino Cecchettin si è trovato a faccia a faccia con i detenuti. Era già successo a Padova, un mese prima della sentenza del processo per l'omicidio di Giulia. «Fu un incontro molto importante per me - ha svelato ai reclusi - sentivo l'imbarazzo di dover incrociare lo sguardo di Filippo, ma quella volta mi trovai a parlare con delle persone e non con dei mostri, e così sparirono i miei pregiudizi».
Prova un senso di gratitudine per quel colloquio: «D'altra parte chi sono io per giudicare?». Queste parole e un buon caffè preparato dai detenuti rompono il ghiaccio. Cecchettin comincia a parlare di sé, della mentalità maschilista comune a tanti suoi coetanei quando era ragazzo: il desiderio di una bella macchina e di tante ragazze, «Ma non avevo né i soldi, né il phisique du role», dice ironizzando su sé stesso.
Poi l'incontro con Monica che sposerà e che l'ha fatto diventare «un uomo vero», i tre figli da crescere e una vita proiettata sul lavoro, fin quando la malattia gli porta via la moglie e l'anno successivo l'atroce omicidio della figlia. All'inizio il padre di Giulia provava una rabbia enorme verso Filippo Turetta, poi vedendo gli altri figli, Davide ed Elena, che soffrivano tanto, ragionò: «Ma se mi faccio prendere da questi sentimenti sono finito come uomo e soprattutto perdo anche loro».
I detenuti ascoltano in religioso silenzio e iniziano a fare domande. Davide chiede cosa pensa del sondaggio in una chat tra gli studenti di una scuola di Bassano che inneggiava alla violenza di genere. Gino risponde e spiega che non l'ha presa come fatto personale: «Bisogna andare all'origine di questi comportamenti e capire perché mancano educazione e rispetto». Ancora, come ha trasformato il dolore in impegno chiede Carmine, e lui racconta che ci è riuscito attraversando il dolore e non fuggendolo. Poi Cecchettin parla dei momenti in cui avrebbe potuto avere gesti di attenzione verso Monica e Giulia e non lo ha fatto. Ad alcuni detenuti viene in niente il tempo che trascorrono lontano dai figli, accendendo rimorsi e rimpianti.
Le domande fioccano, c'è chi chiede di Giulia. «Era un'isola felice - ricorda il padre - era curativa, aveva delle doti straordinarie. Quando tornavo stanco dal lavoro subito capiva che ero di cattivo umore, mi prendeva le guance con le mani e così faceva passare tutto». C'è bisogno di un cambiamento di mentalità,
l'uomo non ha capito che nella parità vive meglio, continua Cecchettin. Un primo cambiamento già c'è stato, ed è un piccolo miracolo: i due detenuti che avevano discusso la volta precedente stanno seduti vicini, si abbracciano e leggono un testo: «Restare umani è la nostra più grande risorsa. La lettura del libro e il dibattito che ne è scaturito hanno trasformato le nostre celle in luoghi di discussione e riflessione. Momenti in cui ci siamo sentiti liberi di pensare, di confrontarci e di scegliere. Dobbiamo ringraziarla per averci proposto l'ambizione, seppur ardua, di costruire una cultura della riconciliazione anziché quella della vendetta».
Gino ringrazia, dice che si è sentito in famiglia e torna a casa con qualcosa che ha imparato. Scroscia un forte applauso. Prima di andar via c'è chi gli regala una pergamena, chi una poesia in napoletano su Giulia con annessa traduzione in italiano. Uscendo dal padiglione un detenuto che non ha potuto partecipare gli lascia una lettera, un altro gli stringe la mano: «Sono onorato dì conoscerla». Oggi la serenità di quest'uomo ferito risplende tra le sbarre impenetrabili del carcere. Dopo questo incontro per detenuti e i volontari niente sarà più come prima.
[ Antonio Mattone ]