Una retata, poi violenze e deportazioni. I 110 anni dal massacro degli armeni

Una retata, poi violenze e deportazioni. I 110 anni dal massacro degli armeni

II 24 aprile 1915 a Costantinopoli, con un gigantesco rastrellamento, l'intera élite della comunità viene liquidata
C'è un forte nesso tra guerra e genocidio, poiché la prima è il contesto in cui tutte le atrocità sono possibili. La cultura del nemico consente operazioni difficilmente concepibili e realizzabili in tempo di pace

Centodieci anni fa, mentre infuriava la Prima guerra mondiale, il governo dei Giovani Turchi - il Comitato Unità e Progresso - dava il via all'eliminazione del millet armeno dal corpo dell'Impero ottomano. Il "triumvirato", che si era sostituito al Sultano alla guida dell'Impero, intendeva infatti costruire, con feroce determinazione, un Paese omogeneo dal punto di vista etnico-religioso e la guerra mondiale fu l'occasione per spingere alla realizzazione di tale tragico disegno.
Tutto inizia appunto il 24 aprile 1915, a Costantinopoli, con una gigantesca retata, in cui l'élite armena della capitale viene liquidata. Seguono i massacri, un vilayet dopo l'altro, e poi le deportazioni "dei gruppi di popolazione sospetti di spionaggio e tradimento, qualora le necessità militari lo richiedano" Destinazioni prescelte le desolate località siriane di Deir ez-Zor o di Ras al 'Ain, dove, durante o dopo una marcia a piedi di centinaia di chilometri, un intero popolo viene trucidato nei modi più raccapriccianti, tanto da sollevare le inutili proteste degli ufficiali tedeschi e austriaci (alleati della Sublime Porta nella Grande Guerra) o dei diplomatici neutrali che sanno di quei drammatici eventi.
Obiettivo gli armeni, senza eccezioni, ma molto spesso - e questo è poco noto - anche le altre comunità cristiane, tra cui quella siriaca e caldea. Il caso di Mardin, nel vilayet di Diyarbakir, è significativo di un accanimento che non distingue tra i cristiani, colpendo tutte le comunità. Finiva così una secolare coabitazione, tipica di quell'Impero "mosaico" che era stato il dominio ottomano.
È importante fare memoria di tale tragedia, quando la cronaca dell'oggi ci parla di un Oriente cristiano - con tradizioni risalenti all'epoca apostolica, con una grande eredità teologica e spirituale e con una storia di confronto e convivenza col vissuto islamico - che rischia di scomparire. Quale futuro per i cristiani nel Medio Oriente? È la domanda che ci si pone in un momento difficilissimo per quelle comunità depauperate dall'emigrazione. La città martire di Aleppo, da millenni luogo di compresenza fra popoli e confessioni, è emblematica di quanto accade anche altrove e prefigura forse il destino di un'area più vasta, quasi un'amara resa alle ragioni di chi predica l'ineluttabilità degli scontri di civiltà.
Ricordare ciò che avvenne 110 anni fa in quelle stesse zone è quindi importante per capire il presente. Perché il Metz Yeghérn, il Grande Male, come si dice in armeno, ci mostra che i peggiori abissi sono possibili. C'è un forte nesso tra guerra e genocidio, poiché la prima è il contesto in cui tutte le atrocità sono possibili, con le articolazioni dello Stato impegnate in una lotta in cui sfuma sempre di più il confine tra militari e civili, tra obiettivi "leciti" e illeciti, mentre la cultura del nemico consente operazioni difficilmente concepibili e realizzabili in tempo di pace.
La ricorrenza del genocidio è di fondamentale importanza per tutto il popolo armeno. Ma comprendere il legame tra quanto avvenuto allora e il clima di guerra che si respirava e si viveva, ci aiuta anche a restare vigili e a ripudiare il clima bellicoso di questi ultimi anni, gli appelli al riarmo, la demonizzazione dell'altro. Ogni guerra peggiora il mondo, ogni guerra è gravida di mostri ancora peggiori di quelli della morte in battaglia. Da ogni guerra può nascere un genocidio.
Un capolavoro della letteratura mondiale, I 40 giorni del Mussa Dagh, di Franz Werfel, sulla resistenza armena sull'altopiano tra Cilicia e Siria, descrive bene tanto il tragico disegno dei Giovani Turchi - "Fra l'uomo e il bacillo della peste non c'è possibilità di pace" -, quanto l'ipocrisia di un Occidente che aveva fomentato i nazionalismi e viveva a sua volta un'"inutile strage: "Il nostro governo è venuto a scuola da voi"
La storia rischia di ripetersi, in forme diverse, ma altrettanto violente. Occorre non dimenticare, parlare e operare perché gli esiti non siano gli stessi. Vanno coltivati tutti gli spazi possibili di dialogo e di mediazione e valorizzata ogni tensione unitiva, ricordandoci che siamo tutti sulla stessa barca, perché nessuno possa un giorno parlarci di nuovo dell'altro come di un "bacillo della peste" o rivendicare di aver imparato dalle nostre parole o dai nostri gesti.


[ Marco Impagliazzo ]