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In Francia ci piace parlare di laicità, questo concetto molto francese, per il quale io stesso avrei difficoltà a darvi una definizione chiara, perché in Francia è tutt’altro che unanime.  Per questo rientro a scuola, il dibattito in Francia si è incentrato sull’abaya.  Gli abaya dovrebbero essere vietati nelle scuole oppure no?  Gli Abaya sono questi abiti larghi indossati dalle donne nei paesi musulmani.  La questione qui non è se Macron abbia ragione o meno a vietare alle studentesse di indossare l’abaya nelle scuole francesi.  Ma attraverso quale processo siamo arrivati a tanta tensione?  Perché mi sembra che questo illustri perfettamente il tema della nostra tavola rotonda: “frammentazione e incertezze, l’altra forma della globalizzazione”.
 
 
L’abaya, o meglio l’uso un po’ ribelle che ne fanno un certo numero di adolescenti in Francia, è un puro prodotto di questa globalizzazione: giovani che vivono in Francia, ma non si sentono veramente d’accordo con i valori francesi (semplice crisi adolescenziale, o manipolazione politica, le opinioni divergono), e andare su Internet alla ricerca di un’altra identità, quella portata da un Islam immaginario, perché nell’Islam l’abaya non è un indumento religioso.  Ma queste giovani danno all’abaya un carattere identitario, e quindi religioso, reinvestendolo di un nuovo significato.  E questo permette loro di separarsi dalla società francese, di marcare la propria differenza, di affermare un’altra ancora, altri valori.  E questo finisce per creare distinzioni, frammentazioni e anche molta incertezza.
 
Non rimarrò più sull’abaya, che è lì solo come esempio.  La globalizzazione porta con sé questo pericolo di frammentazione; Ricoeur già parlava di “scetticismo planetario”.  Benedetto XVI lo avrebbe tradotto in relativismo.  In un testo pubblicato già nel 1961 con il titolo “Civiltà universale e culture nazionali”, il filosofo Ricœur ritiene che lo sforzo di apertura alle altre culture nel quadro della globalizzazione rischiava di sfociare in uno scetticismo planetario “pericoloso quanto la bomba atomica”. ": "Nel momento in cui scopriamo che esistono culture e non una cultura, nel momento quindi in cui ammettiamo la fine di una sorta di monopolio culturale, illusorio o reale, siamo minacciati di distruzione dalla nostra stessa scoperta;  diventa improvvisamente possibile che esistano soltanto gli altri, che noi stessi siamo un altro tra gli altri;  scomparso ogni significato, diventa possibile passeggiare tra le civiltà così come tra vestigia e rovine;  (…) Bisogna ammettere che questo pericolo è almeno uguale e forse più probabile di quello della distruzione atomica” (1).
 
Quello che è successo è che un tempo pensavamo di essere la civiltà, e la scoperta della pluralità di civiltà, religioni, lingue, culture, si è rivelata molto pericolosa.  Ogni civiltà, sapendosi mortale, si è creduta  in qualche modo già morta;  non restava che passeggiare come turisti, in un certo senso, in un mondo in cui tutte le identità sono diventate intercambiabili.  Una tale deriva è pericolosa quanto il ritiro monolitico ed esclusivo dell’identità.  Quando ci sono solo gli altri, non c’è più né identità né alterità.
 
Paul Ricoeur ha detto giustamente che, per incontrare qualcuno diverso da te stesso, devi avere un sé.  Ma questo sé, questa fiducia in noi stessi, è minata dalla globalizzazione.  Ed è proprio questa impotenza, questa incertezza, per usare il titolo del nostro tema, che ci impedisce proprio di incontrare gli altri.  E può portarci a una frenesia per la sicurezza, di cui il divieto dell’abaya è solo uno dei tanti esempi.  Dovremmo menzionare qui tutta la crescita dei movimenti identitari nel mondo, i ritiri, le paure, i muri che stiamo costruendo di nuovo, qui in Europa.
 
 
 
Forse, essendo giornalista, farò notare la responsabilità del sistema mediatico in questo stato di cose.  La rivoluzione tecnologica e Internet, infatti, hanno notevolmente aumentato lo scambio di informazioni.  I social network hanno causato un aumento massiccio e vertiginoso dei discorsi da tutte le parti.  Questo è uno degli effetti della globalizzazione, forse il più spettacolare: tutti questi contenuti che circolano sul web, nel più grande disordine, una sorta di trambusto mediatico che, mi sembra, si verifica oggi, gioca un ruolo importante nella frammentazione e atomizzazione della nostra società.  Perchè ?  Perché ognuno può dire quello che vuole, quando vuole, senza filtri.  Basta guardare il livello delle “conversazioni” sui social network, dove le invettive e le prese di posizione sono prevalenti.
 
Credevamo che il Web ci avrebbe unito.  Al contrario, ci disperde.  Certamente possiamo entrare in contatto con migliaia di persone.  Ma in questo rumore permanente emergono gli elementi più salienti, le frasi più controverse.  Tutto ciò ha contaminato tutto il nostro spazio comune. Forse, cosa più grave per il “vivere insieme”, ognuno rimane nella propria bolla comunicativa, seguendo le persone e le reti con cui è, a priori, d’accordo.  Ciò è stato evidente durante il Covid, dove gli anti-vaccini hanno trovato conforto in un flusso continuo di “fake news” provenienti da sedicenti esperti, e senza mai confrontarsi con l’opinione opposta.  Mi sembra che sarebbe urgente promuovere una forma di ecologia dell’informazione, affinché i media, dei legami sociali, non diventino acceleratori di conflitti e differenze.
 
Più in generale, tutto avviene come se avessimo perso la bussola.  O meglio, non abbiamo sostituito la nostra vecchia bussola, quella che, in un quadro di confini ben definiti, regolava un tempo la nostra intera società grazie a un corpus di diritti e doveri, sistemi di valori comuni.  Lì abbiamo incontrato altri sistemi di valori, altre civiltà e non sappiamo più da che parte sia il nord.
 
Come vivere in questa incertezza causata dalla globalizzazione?  Mi sembra che ci sia l’inizio di una risposta e che dovremo decidere rapidamente su questo argomento.  Questa è l’Europa, quella che abbiamo costruito in 70 anni e la sua evoluzione.  E questa sarà tutta la sfida delle prossime elezioni europee del 2024, sapere quale Europa vogliamo, e quindi come vogliamo convivere in questa forma di incertezza.
 
Perché l’Europa?  Perché è proprio questo luogo “vuoto” o meglio pieno di stratificazioni e incroci di umanità diverse.  Perché è nato dal desiderio di porre fine a una certa idea di nazioni e di confini, che ha causato una catastrofe umana e una forma di suicidio.  Come dice bene Erri de Luca, con il suo stile poetico, “so che la parola della nuova Europa è nata dalle ceneri e dalle rovine, come la penicillina è nata da una cultura di batteri.  La nuova Europa in cui sono nato e cresciuto è stata l’antibiotico della guerra”.  (2) Tuttavia vediamo oggi come questa speranza (gli antibiotici in guerra) sia minata da tutte le spinte identitarie e nazionaliste.  “Il Mediterraneo è diventato il laboratorio più intensivo per la trasformazione dei corpi umani in plancton”, scrive Erri de Luca.  Nel 2024 sarà davvero una scelta politica: l’Europa dovrebbe diventare uno spazio di chiusura, di rassicurazione sulle identità storiche, in difesa di tutto ciò che non è come noi, e in particolare dei migranti?  Oppure possiamo rendere questo spazio europeo un luogo di incontro e confronto delle nostre diversità?  Perché l’Europa è diversa.  Questa è la sua specificità.  L’Europa è un continente che non ha nulla di suo.  La sua storia è fatta di una storia plurale, di valori che si contraddicono, senza che nessuno di essi, alla fine, abbia mai prevalso.  Olivier Abel, filosofo protestante francese, la chiama la “vertigine dell’Europa” (3).  Già Machiavelli diceva che l’Europa era afflitta dalla contraddizione tra un’antica morale del coraggio (Socrate) e una morale cristiana del perdono (Gesù).  L’Europa è fatta di lingue diverse e di culture diverse.  Non idealizzo. L’attualità dimostra chiaramente che è difficile.  Che il grande arrivo di migranti, provenienti da altre culture, spaventa, destabilizza, e dobbiamo tenere conto di queste paure, avere risposte, gestirle.  Ma possiamo accettare un’Europa rinchiusa a invecchiare in un ospizio di lusso?  Senza dubbio dovremmo prima, per usare l’espressione di Ricoeur, sapere chi siamo.  Accettare le nostre molteplici tradizioni e riconoscere che noi stessi siamo il frutto di diversi umanesimi, che si sono formati nel corso della storia.  Ma dobbiamo usarlo come un vantaggio e, al contrario, promuovere questa miscela.  Riascoltiamo Erri de Luca: “In questo continente il razzismo, la selezione di un ceppo originario, non ha basi biologiche.  Coloro che sperimentano questo disturbo percettivo e comportamentale si dissociano da gran parte del proprio essere e dovrebbero logicamente liberarsi di una buona dose del proprio sangue.
 
L’Europa, poiché non ha più un progetto imperialista, poiché è intrinsecamente diversa, plurale, multilingue, deve essere in grado di promuovere una forma di universalismo, ma un universalismo non strabordante.  Un universalismo che si costruisce passo dopo passo, in orizzontale.  Penso che, di fronte a una globalizzazione che tende a lacerarci, a dividerci, a collocarci in arcipelaghi diversi, l’Europa sia uno spazio per costruire una visione comune di diverse umanità.  Papa Francesco parla così di fraternità, e questa è senza dubbio la parola giusta per designare questo universalismo che non viene dall’alto, ma dal fratello.  Infine, mi sembra che si possa citare il bellissimo discorso di un grande europeo, Vaclav Havel, nel 1999 davanti al Senato della Repubblica francese che lo ricevette: “La vocazione dell’Europa nel contesto della civiltà attuale – e quindi , l’idea fondamentale di unificazione – non deve risiedere, come vediamo attualmente, in qualcosa di nuovo, di inedito.  Può essere ricavato semplicemente da una nuova lettura di antichissimi libri europei, da una nuova interpretazione del loro significato.  Quattro anni fa morì un ebreo lituano che aveva studiato in Germania per diventare un famoso filosofo francese.  Il suo nome era Emmanuel Levinas.  Secondo il suo insegnamento, secondo lo spirito delle più antiche tradizioni europee, in questo caso senza dubbio ebraiche, è guardando il volto dell’altro che nasce il sentimento di responsabilità verso questo mondo.  Credo che sia proprio questa tradizione spirituale che l’Europa oggi dovrebbe ricordare.  Scoprirà l’esistenza dell’altro – sia nello spazio intorno a lei che nei quattro angoli del mondo;  e la responsabilità fondamentale che intende assumersi non assumerà più il volto presuntuoso del vincitore, ma quello umile di chi porta sulle spalle la croce del mondo” (4)
 
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1. Paul RICOEUR (1913-2005), Civiltà universali e culture nazionali, Revue Esprit, ottobre 1961, ristampato in Histoire et Vérité, éditions du Seuil, Parigi 1964.
 
2. Erri de Luca “Europa, i miei fuochi” Tratti Gallimard, marzo 2019
 
3. Olivier Abel vertigini d’Europa edizioni Labor et Fides, Ginevra, 2019
 
4. Vaclav HAVEL (1936-2011), Discorso durante il solenne ricevimento del Presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Havel, al Senato della Repubblica francese, 3 marzo 1999.