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Gianni Morandi

Cantautore italiano
 biographie

Nel 1968 avevo ventiquattro anni. Oggi sarei considerato un ragazzino, ma allora era diverso. Avevo cominciato a lavorare presto nella bottega di papà, poi avevo iniziato a cantare e il successo mi aveva raggiunto che non avevo ancora vent’anni: dischi d’oro, Canzonissime, Cantagiri...
All’inizio del 1967 fui chiamato per il servizio militare, quindici lunghi mesi di naja! Un paio di mesi prima mi ero anche sposato... Avevo ventiquattro anni, ma mi sentivo già un uomo maturo. E forse lo ero.
Il mio Sessantotto era cominciato un paio di anni prima e del resto l’inquietudine dei giovani già si percepiva un po’ ovunque. Gli studenti nei campus americani, qualche tentativo di occupazione delle facoltà universitarie, la ribellione contro i padri. Io facevo canzoni d’amore, piacevo sia ai ragazzi che alle loro mamme, ma certo non ero insensibile a quell’atmosfera di grande agitazione e fermento.
Così alla fine del 1966 un mio amico cantautore che aveva quasi la mia stessa età, Mauro Lusini, mi fece sentire una canzone, allora si chiamavano canzoni di protesta, anche se in quel caso la melodia era particolarmente dolce ed evocativa: era una ballad, nello stile dei folksinger americani, quelli del Greenwich Village a New York, l’ambiente da cui vennero fuori Bob Dylan, Joan Baez. Si intitolava C’era un ragazzo che come me (amava i Beatles e i Rolling Stones). A me piacque tanto, era un po’ fuori dai miei canoni, ma la volli interpretare. Tutti mi dicevano, in testa il mio produttore di allora: no, Gianni, non la fare, non fa per te, il tuo pubblico non capirebbe.
L’ostacolo più grande venne dalla Rai, la cui censura si scagliò contro il testo eccessivamente esplicito, che citava la guerra in Vietnam, che proprio in quegli anni stava scrivendo alcune fra le pagine più sanguinose della storia contemporanea.
Ma era una canzone bellissima, perché le idee e le atmosfere che evocava, in maniera garbata ma diretta, erano quelle che tutti i giovani sentivano profondamente: il disgusto per la guerra innanzitutto, con l’orrore per le armi, gli strumenti che danno sempre la stessa nota, la nota di morte, o il “vedere la gente cadere giù”. Ma anche il valore dell’amicizia senza confini, questo ragazzo americano che “girava il mondo” ma che aveva amici italiani e di tante altre nazionalità e qui penso a quel clima d’allora di grande apertura, le avventure, i viaggi in autostop, quella voglia di andare oltre i confini, di incontrare tutti, di sentire il mondo come la propria patria, di andare oltre ogni pregiudizio. E poi una sottile polemica contro i nazionalismi: “nel petto un cuore più non ha ma due medaglie o tre”…morire per le medaglie? Morire per l’onore? Ma quale onore? L’onore che si conquista in battaglia? Ma per chi? Un mondo diviso in buoni e cattivi? L’inganno tragico e doloroso dei nazionalismi che portano solo guerre e odio, odio che inghiotte generazioni intere.
Il successo per quella canzone non arrivò subito, l’accoglienza del pubblico fu effettivamente tiepida all’inizio. Ma il tempo è stato galantuomo. Qualche anno più tardi Joan Baez l’avrebbe consacrata come un inno alla pace.
Il Sessantotto per me è stato questo.
La musica ha avuto un potere straordinario, ha unito un’intera generazione a cui ha dato voce e a cui ha prestato tante parole. C’è stata come una prima grande globalizzazione dell’amicizia attorno al grande valore della pace, che ha unito giovani tanto diversi per cultura e provenienza. C’è stata una incredibile tensione verso il futuro, con la consapevolezza che costruire un mondo diverso era doveroso e possibile.
Fu in quell’anno che un grande papa, Paolo VI, che domenica è stato canonizzato dalla Chiesa cattolica, San Paolo VI, ebbe la straordinaria intuizione di dedicare il primo giorno dell’anno alla pace, facendone da allora giornata mondiale della pace.
Il Sessantotto ha provato a “inventare” un mondo nuovo affrontando le grandi sfide del tempo, le sfide di un mondo terrorizzato dall’arma atomica e in cerca di pace, un mondo che ha voluto dare la parola a chi non ce l’aveva e che ha provato ad affrontare con coraggio le grandi diseguaglianze economiche e sociali.
E’ un’eredità che forse dovremmo riscoprire e trasformare nel programma di lavoro per i prossimi anni.